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Meraviglie
nel buio
Otto grotte emerse e un numero
imprecisato di cavità sommerse: il promontorio di Capo
Caccia nasconde il secondo lago sotterraneo d'Europa e le
formazioni calcaree più eccentriche che si conoscano.
L'interesse naturalistico del promontorio di Capo Caccia,
formato da uno sperone fortemente inclinato di rocce calcaree
giuresi e cretacee, prosegue anche al di sotto della sua superficie,
nelle cavità naturali che vi si aprono. Alcune di esse
sono molto famose e facilmente visitabili, come la Grotta
di Nettuno, altre sono frequentate solamente da speleologi,
altre ancora sono note solo ai sub e ai pescatori
di corallo perché poste sotto il livello del mare.
La natura carsica della zona si intravede però già
dall'esterno, con la presenza di rocce cariate, massi erosi,
doline (caratteristiche le cavità imbutiformi di sprofondamento),
solchi e inghiottitoi. Le grotte emerse conosciute sono in
tutto otto, tra grandi e piccole, mentre il numero di quelle
sommerse, poste anche a rilevante profondità, è
imprecisato: i cercatori di corallo, che ne sono i migliori
conoscitori, si guardano bene dal rilevarne l'ubicazione.
Oltre che dal punto di vista geologico le grotte rivestono
una notevole importanza per l'eccezionale ricchezza di concrezioni
eccentriche e per le palesi testimonianze della presenza umana
in epoca preistorica.
Piuttosto singolare è l'aspetto della Grotta dei Palombi
, un'imponente galleria lunga 110 metri e invasa sul fondo
del mare, che attraversa da parte a parte la minuscola isola
Foradada (cioè forata nel dialetto algherese), uno
scoglio emergente dal mare a 400 metri di distanza dalla falesia
di Capo Caccia. Essa costituisce il residuo superiore di un
più vasto complesso sotterraneo, forse legato a qualche
cavità del promontorio, demolito lateralmente dall'erosione
marina e successivamente invaso nella parte inferiore dalle
acque. Il nome le deriva dalla presenza di colombi selvatici,
gabbiani e cormorani, responsabili della formazione di un
accumulo di guano che viene di tanto in tanto estratto per
essere usato come fertilizzante. Da più parti si sostiene
che, per la sua particolare conformazione, questa grotta sarebbe
stata usata durante l'ultimo conflitto come base segreta dei
sommergibili tedeschi. La visita, piuttosto suggestiva, si
compie interamente in barca.La Grotta di Nettuno, situata
alla base dell'imponente falesia occidentale, oltre ad essere
la maggiore per estensione (circa 1300 metri di sviluppo),
è sicuramente anche la più nota e interessante.
Non si hanno prove certe di una sua frequentazione in epoca
antica, ma data la sua posizione non dovette sfuggire all'attenzione
dei primi abitanti della zona così come è conosciuta
dai pescatori algheresi da tempo immemorabile. Le più
vecchie citazioni risalgono però solo all'inizio del
secolo scorso, quando acquistò notevole fama, soprattutto
all'estero, grazie ai molto visitatori francesi e inglesi,
che la descrissero come una vera meraviglia della natura.
Fra gli illustri turisti dell'epoca vanno ricordati il duca
di Buckingham, che la illuminò a giorno con fuochi
di bengala, l'allora principe Carlo Alberto di Savoia e, più
tardi, la regina Margherita.Tanta rinomanza ebbe però
anche sgradevoli ripercussioni: il tratto visitabile, particolarmente
ricco di concrezioni eccentriche a forma coralloide, fu infatti
spogliato in breve tempo di tutte le sue più minute
bellezze per il mai tramontato malvezzo di portarsi a casa
tangibili ricordi. Un comandante della flotta sarda vi asportò
a cannonate interi gruppi stalattitici per adornare il giardino
della propria villa. Un ufficiale della marina inglese tentò
di imitarlo, ma le proibitive condizioni del mare gli impedirono
l'ancoraggio presso la grotta: per sfogare la sua delusione
e scaricare le armi egli non trovò di meglio che cannoneggiare
la grotta dalla propria corvetta, tentando di centrarne l'ingresso.
Oggi rimangono comunque le imponenti colonne monumentali e
le concrezioni irraggiungibili e inattaccabili. Fino a trent'anni
fa le difficoltà d'accesso dal mare limitavano in maniera
rilevante l'afflusso sempre crescente dei visitatori. In una
saggia prospettiva di valorizzazione turistica fu allora aperta
nel 1954 anche l'ardita Escala del Cabirol: un sentiero con
656 gradini e alcuni tratti pianeggianti che scende lungo
tutta la falesia, dai 110 metri della sommità fino
all'ingresso lambito dalle onde. Il percorso è un po'
faticoso, soprattutto al ritorno in salita; ma lo spettacolo
su questo tratto di mare è oltremodo suggestivo. Per
chi ha gambe o cuore deboli, oppure predilige la vita comoda,
la grotta resta pur sempre accessibile, mare permettendo,
con barca da Alghero. L'ingresso si presenta con un'ampia
apertura poco sopra la battigia: subito dopo, la volta s'innalza
a formare una gigantesca grotta interamente occupata sul fondo
dal lago La Marmora, il secondo per estensione in Europa con
i suoi 130 metri di lunghezza. La sua profondità oscilla
da uno a dieci metri. L'acqua salmastra penetra da un condotto
posto una decina di metri sotto l'ingresso, sottoponendo il
lago al flusso di marea e provocando durante le mareggiate
un sensibile moto ondoso. All'interno e sul bordo del lago
svettano colonne, stalagmiti e colate di notevole mole, alte
fino a 10-15 metri e immerse nell'acqua per diversi metri.
Circa a metà del lago, sulla destra, si sviluppa per
oltre 400 metri un ramo accessibile solo agli speleologi,
formato da cunicoli, gallerie e ampie sale adorne di splendide
quanto intatte concrezioni, tra cui parecchie eccentriche.
Quattro di queste gallerie terminano su altrettanti laghi
comunicanti col mare e, almeno in un caso, anche col lago
La Marmora. Nel maggiore di questi laghi viveva fino ad una
ventina d'anni fa una solitaria foca monaca, uno dei rarissimi
e ultimi esemplari del Mediterraneo centrale (gli altri, in
numero quasi sicuramente inferiore alla decina, si trovano
nelle grotte marine del Golfo di Orosei, sulla costa centro-orientale
della Sardegna). Questa specie relitta, sopraggiunta nei nostri
mari durante il più recente periodo glaciale e sopravvissuta
ai mutamenti climatici e ambientali, è stata praticamente
annientata dagli ultimi due decenni dall'invasione turistica
dei suoi habitat e dalla spietata caccia operata dai pescatori.
In passato il percorso turistico prevedeva l'attraversamento
del lago La Marmora su barche a fondo piatto: oggi si compie
invece seguendo un sentiero che costeggia i gruppi concrezionali
lungo il bordo destro. Raggiunta la spiaggetta interna alla
grotta in fondo al lago, e dopo aver sorpassato una possente
colonna, il sentiero sale in un vasto ambiente, giungendo
fino alla sommità della sala, dove termina offrendo
un ultimo suggestivo scorcio. Pareti e volta di questa caverna
erano in origine completamente tappezzate da concrezioni eccentriche:
grazie all'azione degli scriteriati visitatori del passato
ora restano all'ammirazione del pubblico solo miseri tronconi.
Ci si potrà comunque consolare con la maestosità
delle imponenti colonne stalagto-stalagmitiche, tra cui una
quasi alta venti metri e con un diametro di sei. Fino al 1950
le conoscenze sulla grotta finivano qui, perché nessuno
aveva mai cercato eventuali prosecuzioni. In quell'anno alcuni
giovani speleologi algheresi riuscirono però a scoprire
l'accesso a nuovi vasti ambienti: sul fondo del settore turistico,
nei pressi della cabina elettrica, si snoda da allora, con
vari saliscendi, un secondo tratto di sentiero in un ambiente
assai meno spazioso e ricco di concrezioni del precedente,
ma più integro. Terminato questo tratto inizia la parte
speleologica vera e propria, estesa ancora verso nord per
oltre mezzo chilometro con cunicoli, gallerie, laminatoi d'interstrato,
forre e ampie caverne posti a varie altezze su differenti
livelli, il più basso dei quali è attualmente
allagato dalla falda freatica, in cui le acque dolci si mescolano
con quelle salmastre. La caratteristica più saliente
di questa zona è costituita dalla presenza di concrezioni
eccentriche ancora intatte: sottili cannule lunghe anche qualche
decimetro, con andamento inaspettato e incredibili molteplici
ritorsioni su se stesse, che si dipartono in tutte le direzioni
da stalattiti, stalagmiti, colonne, colate, pavimenti e volte,
sfidano oltre ogni logica la legge di gravità. La loro
genesi è uno dei capitoli più enigmatici della
speleologia. Tra le cavità sommerse finora note, la
Grotta di Nereo è di gran lunga la più estesa.
La sua esplorazione dovuta a speleosub romani risale appena
al 1966: prima di allora i pescatori di corallo avevano sempre
preferito scendere a profondità maggiori piuttosto
che affrontare le insidie di una cavità sommersa. Inoltre
erano convinti che il prezioso prodotto non potesse svilupparsi
nel buio delle grotte, mentre proprio qui è stato trovato
il più ricco giacimento corallino algherese, con infiorescenze
giganti che raggiungono 400- 500 grammi. La grotta attraversa
interamente la Punta dell'Asino, posta all'estrema propaggine
di Capo Caccia, in verticale sotto il faro. Gli accessi da
nord sono due, di cui il più basso è a quota
-35 m. Ben presto si raggiunge una sala di vaste dimensioni,
da cui si dipartono numerose vie. Il percorso più logico
è costituito da una galleria in leggera salita, diretta
a sud, dalla quale si staccano parecchie diramazioni. Due
di queste, poste rispettivamente a 100 e 180 metri dall'ingresso
a quota -18 m, dopo una decisa risalita conducono in ambienti
aerei privi di prosecuzioni. Dopo 225 metri di percorso si
raggiungono i due ingressi a sud, posti a quote -15 m e -18
m. Lo sviluppo complessivo si aggira sui 300 metri. Le forme
di vita ospitate in questa cavità sono particolarmente
ricche e interessanti: nei tratti iniziali si possono incontrare
murene, granchi e aragoste, mentre all'interno vivono spugne,
molluschi e coralli. A 70 metri dall'ingresso (quota -18 m)
è stato individuato il consistente banco corallino
di cui abbiamo parlato. In esso sono presenti anche non pochi
elementi fossili, o quanto meno di antichissima formazione,
ricoperti da una sottile crosta calcarea che li differenzia
da quelli viventi, di color rosso intenso. In associazione
al corallo sono stati ritrovati esemplari di Ceryanthus membranaceus,
nonché conchiglie appartenenti ad oltre quaranta specie
diverse anche molto rare. Alcune di esse vivono solitamente
a profondità maggiori, oltre i cento metri, ma evidentemente
le peculiari condizioni dell'habitat ipogeico consentono loro
di rimanere a una quota del tutto inusuale. A mezza costa
del versante orientale della penisola del versante orientale
della penisola di Capo Caccia prospiciente il golfo di Porto
Conte si apre con una vasta imboccatura la Grotta Verde, una
cavità nota da gran tempo, di ridotte dimensioni ma
di estremo interesse storico e archeologico. E' formata da
una spaziosa caverna iniziale con fondo piuttosto inclinato,
che si trasforma poco dopo in una galleria inclinata a 45
gradi fino ad arrestarsi su un laghetto di acque salmastre
a quota 0. Mentre tutto il resto dell'ambiente è spoglio,
la caverna iniziale presenta alcune possenti colonne alte
fino a venti metri e rivestite come le pareti da una patina
verdastra di funghi e licheni che ha dato il nome alla cavità.
Particolarmente suggestivo è un effetto cromatico che
si manifesta al mattino, quando un raggio di sole penetra
all'interno e pennella le pareti. L'antica presenza di acque
dolci e la facilità di accesso hanno fatto conoscere
questa grotta fin dai tempi antichi. Scavi compiuti sia nel
tratto iniziale sia presso il laghetto finale hanno evidenziato
quattro focolari e portato alla luce resti di animali terrestri
(ovini, suini, uccelli) e molluschi marini, reperti litici
in selce e ossidiana, strumenti di rame, nonché un'abbondante
ceramica di varia fattura. La loro attribuzione abbraccia
un vasto orizzonte temporale: Neolitico, Eneolitico ed Età
del Bronzo, non escludendo epoche successive comprese in un
arco di tempo di alcune migliaia di anni. Rimarchevole è
stata anche la scoperta di incisioni su un masso presso il
laghetto: si tratta di una decina di graffiti che in un geometrismo
astratto rappresentano forse figure umane e ideogrammi privi
di qualsiasi altro riscontro nell'isola. Nella sala iniziale
si trovano infine, i resti di un altare paleocristiano dedicato
all'antico culto di Sant'Erasmo. Nel 1974 alcuni speleosub
bolognesi decisero di tentare l'esplorazione del laghetto,
che si rilevò oltremodo prodiga di scoperte: su alcuni
terrazzi posti a diverse quote lungo le pareti furono trovati
frammenti ceramici di vasi preistorici. I rinvenimenti più
importanti dovevano tuttavia avvenire nel condotto iniziale,
alle quote comprese tra -3 e -9, dove alcuni vani laterali
di ridotte dimensioni contenevano crani e ossa umane, oltre
a vasi ceramici con decorazione impressa, a loro volta contenenti
altre ossa. In una bassa cavernetta a -6 i crani apparivano
privi dei relativi scheletri, mentre in un altro ambiente
sottostante erano accompagnati dalle sole ossa femorali. Si
tratta di reperti attribuibili alla fase più antica
dell'Età Neolitica, circa 6000 anni a. C. Questo ritrovamenti
permettono di interpretare sia l'evoluzione idrogeologica
della cavità nell'ultimo periodo della sua lunga storia,
sia di giustificare l'antica frequentazione umana, svelando
anche un piccolo dramma accaduto migliaia d'anni fa. Con l'ultimo
innalzamento del livello marino conseguente alla trasgressione
Versiliana, circa 12.000 anni or sono, le acque salmastre
cominciarono a penetrare nella grande caverna della Grotta
Verde dal basso, attraverso la frana di fondo e minuscole
spaccature della roccia, e formarono un vasto lago. Le acque
marine incontrarono sul loro cammino un apporto di acque dolci
provenienti dalla sommità della caverna, che galleggiando
su quelle salmastre ne formarono lo strato superficiale. La
completa assenza, per la sua natura carsica, di corsi d'acqua
o di sorgenti in tutto il promontorio, costrinse l'uomo preistorico
che popolava quelle contrade a scendere - con non poche difficoltà
tecniche -nella caverna per soddisfare il suo fabbisogno idrico.
Solo così si spiega la presenza di frammenti ceramici
in punti dove, per la conformazione ambientale, non sarebbero
mai potuti giungere anche se gettati dall'alto. Il lento,
ma progressivo innalzamento marino doveva però riservare
un'amara sorpresa a quei nostri lontani predecessori: lo strato
di acqua dolce, infatti, a poco a poco si isolò completamente
sotto la cupola della caverna dalla quale continuava a ricevere
un apporto costante, lasciando salire nel condotto soltanto
le inutilizzabili acque salate. La natura votiva, e forse
anche sacrificale, dei reperti rinvenuti in questo settore
fa pensare al ricorso di quelle genti a riti propiziatori,
nel vano tentativo di scongiurare un così nefasto evento
che le privava della loro principale risorsa idrica. La Grotta
Verde, chiusa al pubblico, può essere visitata, previa
motivata richiesta, solo con il permesso dell'Azienda di Soggiorno
di Alghero. La si raggiunge dal mare salendo un erto pendio
detritico, oppure scendendo un sentiero molto scosceso che
parte dal piazzale di accesso alla Grotta di Nettuno. Assai
più distante dalle grotte precedenti si trova infine
"l'Inghiottitoio della Dragunara", che si apre al
fondo di una minuscola dolina, poco sopra la cala omonima,
ormai all'interno del golfo di Porto Conte. E' formato da
una galleria a forte pendenza, con brevi diramazioni laterali,
che si arresta dopo una trentina di metri davanti a due laghetti,
composto anche in questo caso da uno strato di acqua dolce
spesso alcuni metri che galleggia sulla sottostante massa
salmastra. Narra una leggenda locale che, all'atto della conversione
al cristianesimo, per sancire una definitiva rottura con le
credenze pagane del passato, gli abitanti della zona decisero
di distruggere ogni testimonianza esteriore. Radunati quindi
effigi, statue, amuleti e quant'altro era legato alle divinità
antiche, spogliati case e templi, al termine di una solenne
processione sacra gettarono il tutto in un pozzo d'acqua posto
sul fondo di una grotta. Nel 1970 uno speleosub algherese
affrontò per la prima volta l'immersione nei laghetti
della Dragunara, constatando come i due bacini si ricongiungessero
a breve profondità in un'unica galleria, assai più
ampia e inclinata della precedente, Ma soprattutto rinvenne
su vari terrazzini, e in tutti i punti di minor pendenza del
suolo, un'enorme quantità di vasi e anfore di varie
forme e dimensioni - alcuni intatti, ma più spesso
spezzati o ridotti in minuti frammenti - risalenti a diverse
epoche storiche e preistoriche. Inoltre vi trovò numerose
ossa, presumibilmente umane: una conferma dell'antica leggenda?
Valutando i reperti ceramici si può pensare che l'uomo
cominciò a frequentare la Dragunara per il suo approvvigionamento
idrico dopo la scomparsa dell'acqua potabile dalla Grotta
Verde, continuando poi ad attingere a questa preziosa riserva
fino in epoca avanzata. La presenza di tanti frammenti si
spiegherebbe quindi con l'accidentale rottura dei contenitori
di ceramica e con l'accumulo in un arco di tempo di parecchi
millenni. Tutto ciò senza voler escludere un eventuale
motivo rituale, anche in considerazione della particolare
diffusione avuta nell'antichità dal culto delle acque. |
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