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Capo Caccia: il promontorio più bello
della Sardegna
A pochi chilometri da Alghero un grande triangolo calcareo si incunea nel mare. Sulla punta sud c’è Capo Caccia, sul lato occidentale immense falesie alte quasi trecento metri, al suo interno una riserva con fauna e flora straordinarie. E, nelle viscere, un labirinto di misteriose caverne.
Non v’è in Italia ciò che v’è in Sardegna, né in Sardegna v’è quel d’Italia, scriveva già nel Settecento il naturalista padre Francesco Cetti, affascinato dal carattere peculiare della splendida natura dell’isola. Aveva pienamente ragione: ogni viaggio nell’antica isola dei mufloni e degli avvoltoi non fa che confermarlo.A volte, però, una descrizione scientifica o un’impressione ecologica non possono dare neppure una pallida idea dello spirito magico d’un luogo. Capo Caccia, per esempio. Siamo all’estremità nord-occidentale della Sardegna, questa è davvero la fine della terra.Qui il calcare poderoso si spacca all’improvviso e precipita per centinaia di metri nell’azzurro del mare. Più verticale e brusco di così sarebbe persino difficile immaginarlo: candidi bastioni digradanti e in certi tratti, come Punta Cristallo, addirittura lembi sospesi, massi sporgenti nel vuoto come fantastici trampolini aerei.
Fra terra e mare, è facile socchiudere gli occhi e aver quasi la sensazione di rivivere nella preistoria. Le onde che s’ infrangono sulla roccia drammatica non sembrano neppure scalfirla; eppure, con il paziente lavorìo di migliaia d’anni, sono state proprio loro a modellarla. E a creare miracoli unici quali grotte, cavità marine e persino finestre orografiche, archi e gallerie naturali, come quella famosissima dell’Isola Foradada, perforata a livello del mare.
La celebrità di Capo Caccia è legata soprattutto alle grotte, e specialmente alla Grotta di Nettuno immortalata da Paul Valéry (delle grotte parlerà subito dopo Giulio Badini). Vi si accede dal mare, oppure da un’interminabile rampata di 656 gradini detta Escala del Cabirol. Curiosa denominazione, che manifesta assonanze catalane: qui si parla infatti quasi come a Barcellona, perché Alghero divenne colonia di Catalogna nel lontano 1354. E per di più "Cabirol" non si riferisce al capriolo vero e proprio, mai vissuto nell’isola: bensì a quel daino, ormai scomparso, di cui si dirà tra breve.
Capo Caccia deve il proprio nome a battute venatorie tanto fruttuose da passare alla storia. Vi si faceva strage soprattutto di piccioni torraioli e selvatici, parenti stretti e antichi ascendenti di quelli che oggi popolano le piazze e i centri storici delle città. Qualche cacciatore sparava alla rinfusa negli stormi, sicuro d’ottenere molte prede, altri non sprecavano neppure un colpo e penetravano negli anfratti naturali, riuscendo ad afferrare i confidenti uccelli addirittura con le mani.Dalla cresta che collega Capo Caccia a Punta Cristallo, ci si può affacciare su Cala dell'Inferno su Cala Tramariglio, sull’Isola Piana. Oppure spaziare verso Porto Conte, l’antico porto romano delle Ninfe, o al di là di Punta del Giglio, fino ad Alghero, oggi rinomata stazione turistica. Viene da sorridere pensando che, alla fine dell’Ottocento, il naturalista e viaggiatore Costa vi trovò il soggiorno assai sgradevole per i grossi mucchi d’alghe, sparsi qua e là in piena putrefazione. Questi vegetali marini sono ormai scomparsi dalla terraferma, ma il nome di Alghero è rimasto. E se da Capo Caccia par di sovrastare un immenso paradiso - immaginate cento, duecento, trecento metri di strapiombi a picco sul mare o, dal basso, la costa alta a scarpata piu' verticale d'Italia-, sui pochi tratti di litorale pianeggiante incombono già i primi pericoli. Sono le propaggini d’una edilizia nefasta, che sembrano pronte a espandersi per ghermire ogni incanto di questa perla naturale. Oggi duemila posti-letto, domani forse il doppio o il triplo, secondo le stesse tendenze che hanno già compromesso oltre mille dei 1.900 chilometri di costa sarda.
E’ un posto di sogno, ma può essere anche un posto d’orrori. Dipende se vi si capiti al sole d’una serena giornata estiva, oppure nella bufera invernale o sotto il maestrale dell’autunno. Da qui, comunque, non si riparte senza aver captato luci, suoni e colori, assorbito forti sensazioni, penetrato un mondo remoto e affascinante.
L’ascensione alla vetta del promontorio è stata per la prima volta descritta con vivacita' da Alberto La Marmora nel suo Viaggio in Sardegna nel 1826: Se poi si vuol recarsi sul punto culminante, riferiva l’ufficiale-naturalista piemontese, si può arrivarvi solo per un passo obbligato, che non ha un metro di larghezza, mentre di sotto, da ogni lato, stanno due precipizi verticali spaventosi, di parecchie centinaia di metri di profondità, che arrivano fino al mare. Solo dopo superato questo passaggio, che fa impallidire il viaggiatore più intrepido, si arriva a godere un panorama magnifico, di cui nessuna descrizione saprebbe dare un’idea esatta.Siamo nella Nurra, terra assolata e silenziosa, dalla geologia tanto ricca e complessa che tutte le ere, dal Paleozoico al Quaternario, vi sono rappresentate. Pensate che, appena trent’anni fa, quest’angolo d’Italia era praticamente intatto: severo e deserto, regno impenetrabile della macchia mediterranea e della gariga. La prima colonizzazione fu infatti intrapresa dall’Ente di sviluppo, l’ETFAS, nel 1951: le cronache raccontano della dura lotta delle macchine contro la natura selvaggia della Nurra nera, degli intricati meandri, delle palme nane, del lentisco, del mirto, degli asfodeli, degli orridi macigni e dei misteriosi nuraghe. Chi avrebbe mai pensato che proprio quella natura inospitale sarebbe diventata tanto preziosa?Lo sconquasso fu tale che la prima azienda agraria della zona venne dai pastori battezzata Corea. E prima ancora al posto della macchia c’erano stati, quasi in ogni avvallamento, boschi compatti e secolari.
Vittima predestinata della trasformazione ambientale fu subito la più innocente delle creature selvatiche, il daino, ancora ricordato da parole e toponimi (come crapola, crabolu o cabirol). Inutilmente, nel convegno del 1956 a Copenaghen, l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura raccomandava la tutela dell’importantissima fauna sarda, costituita quasi integralmente da endemismi d’ogni genere, fra cui il daino di Sardegna ormai divenuto rarissimo. Qualche anno dopo, sotto la persecuzione d’un irresponsabile bracconaggio perpetrato a volte con la complicità di chi avrebbe dovuto stroncarlo, il daino scompare definitivamente.Una criminale fucilata abbatte, forse intorno al 1969 l’unico individuo di questa popolazione insulare mirabilmente adattata all’ambiente estremo mediterraneo. Tutto ciò che ne resta oggi è la struggente ripresa d’un corteggiamento tra maschi e femmine nella sbiadita pellicola d’uno sconosciuto cineamatore.
Quasi contemporanea dovette essere la sparizione del più singolare mammifero marino, la foca monaca. Una foca nel cuore del Mediterraneo già sembra un avvenimento fantastico: ma se la immaginiamo destreggiarsi ai piedi delle falesie bianche o tra le acque color cobalto delle cavità marine, il quadro risulta più fedele e completo. Quando, nella prima metà dell’Ottocento, Alberto La Marmora cominciava a interessassi delle foche di Sardegna, la situazione era però diversa da quella attuale. Abitano specialmente le caverne marine nei dintorni di Dorgali e di Orosei, egli scriveva, se ne vedono talvolta a Sant’Elia presso Cagliari, nell’isola di San Pietro e sulle rocce della Nurra battute dalle onde. Gli isolotti del Catalano o Coscia di Donna e quelli del Toro della Vacca sono quasi sempre abitati da questi animali. Ma poi la persecuzione dei pescatori e l’invadenza d’un certo tipo di turismo balneare segnarono il declino inesorabile di questo pacifico animale: presso Capo Caccia qualche foca è stata ancora sporadicamente avvistata fino a qualche anno fa. Poi è calato il silenzio.Per fortuna, vive ancora a Capo Caccia un’altra creatura eccezionale, relitto di tempi lontani e sicuro indicatore d’un equilibrio ecologico ancora non compromesso del tutto.
E’ lo smisurato grifone, un avvoltoio capace di raggiungere i tre metri d’apertura alare. In tutta la Sardegna, dove un tempo era abbondantissimo - l’ornitologo Helmar Schenk stima che intorno al 1945 ve ne fossero ancora 1.000-1.400 esemplari -, è oggi in preoccupante declino: se ne contano forse un centinaio di individui. Ma questo tratto della costa nord-occidentale sembra uno dei più frequentati dai grossi rapaci: per sopravvivere, si sono rifugiati tra pareti inaccessibili e orizzonti marini, un ambiente alquanto insolito per chi sia abituato a incontrarli nelle aride steppe e tra le gole dell’entroterra. Sta di fatto che a Capo Caccia si offrono sempre nel più magico scenario: padroni dell’aria, esploratori della terra e dominatori del mare. Accompagnarli con l’occhio, allorché si librano sfruttando le correnti termiche ascensionali, significa davvero dimenticare i propri limiti, uscire dalla piccolezza della vita di tutti i giorni e volare con loro. Almeno per qualche minuto.Anche se il vandalismo che li minacciava fino a qualche anno fa - si racconta che qualche pilota della locale base militare li abbia persino mitragliati - sembra sconfitto dalla graduale presa di coscienza protezionistica, il futuro di questi anacronistici uccelli non è tranquillo. E i giovani naturalisti della LIPU di Alghero e del WWF sono costretti a nutrirli con speciali carnai, depositando in luoghi segreti carcasse di animali e cascami di macelleria, per evitare che i grifoni alla ricerca del cibo si allontanino troppo dai luoghi più sicuri. La zona di Capo Caccia è stata infatti dichiarata oasi permanente di protezione faunistica.Questa tutela gioverà non solo al grifone, ma anche alle brigate di pernici sarde che frullano dalla macchia o saltellano fra i bassi cespugli, all’aquila del Bonelli, al falco pellegrino, al gabbiano reale e corso, alla berta maggiore e minore, al cormorano dal ciuffo e alle altre creature della fauna sarda scampate alla distruzione.
Ma Capo Caccia non è soltanto un rifugio faunistico privilegiato nella più grandiosa delle cornici: è anche uno splendido giardino spontaneo di piante uniche al mondo, con un complesso di endemismi, cioè di specie che non esistono altrove, eccezionalmente ricco e variato, vi si contano infatti 20 entità, di cui 6 tirreniche, 9 sardo-corse, una sardosicula (Dianthus arrostiti) e 3 prettamente sarde: il limonio lieto, il limonio dalle foglie acute e l’orobanche denudata. Tanto che la Società Botanica Italiana ha proposto fin dal 1970 di istituirvi una riserva naturale integrale di circa tremila ettari. Ed è incredibile che la Sardegna, forse la regione più ricca di patrimonio ambientale, non vi abbia ancora provveduto né del resto tuteli ancora, in forma adeguata e completa, neppure un metro quadrato dei suoi splendidi 23.813 chilometri quadrati di estensione.Senza una vera riserva integrale la natura sarà condannata prima i poi a soccombere. Basti l’esempio di ciò che è accaduto ai danni dei pulvini delle centaurea orrida, una pianticella spinosa apparentemente insignificante, ma in realtà una esclusività botanica di valore assai superiore a quello di vegetali locali più belli e vistosi come la ferula, l’euforbia arborea o la scilla dalla foglie ottuse. Proprio per il loro aspetto selvaggio e quasi esotico, i campi di centaurea vennero scelti qualche anno fa per girare uno dei tanti spaghetti western nostrani, e la straordinaria vegetazione spensieratamente devastata e bruciata con gravissime conseguenze.Ma la pianta che spicca di più su tutte e colpisce l’osservatore in questa bassa macchia frugale è la palma nana, vero frammento di flora tropicale alle latitudini mediterranee. Capo Caccia ospita uno dei popolamenti più notevoli di questa miniatura d’albero, a volte quasi un cespuglio strisciante, relitto delle flore calde dell’Era Terziaria, che ormai sopravvive soltanto in poche circoscritte zone del nostro Paese, dal litorale tirrenico alla Sicilia. Non si tratta, come fino a qualche tempo fa credevano i naturalisti, dell’unica specie di palma indigena presente nel continente europeo: perché a Creta è stata recentemente scoperta un’altra specie, battezzata palma di Teofrasto in onore del noto filosofo e botanico dell’antichità greca. Ma ciò nulla toglie al valore scientifico della palma nana, una tra le più curiose particolarità mediterranea, che certo ebbe in passato maggiore diffusione lungo le coste della nostra penisola.Non si può tornare da un’escursione a Capo Caccia senza un bottino ricchissimo: negli occhi contrasti e verticalità, nei polmoni aromi d’essenze mediterranee, nelle orecchie frullare e gridi di animali selvatici. Però secondo il codice non scritto in vigore per chiunque ami davvero la natura: senza lasciar altro che l’impronta del proprio piede, e senza portar via che immagini, impressioni e ricordi. Una caccia che dà immensamente più soddisfazioni di qualsiasi altra.
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