Roberto Mura Dirigente di Arcobaleno di Stella Nascente
19 agosto 2003
La storia di tre persone, tre fratelli, tre vite
Quando la vecchiaia, la solitudine e la malattia rendono arduo il mestiere di vivere con la dignità che appare sempre meno un diritto e sempre più un optional riservato a pochi eletti
Vorrei raccontarvi una storia. Per immedesimarci meglio l’ambienteremo in una cittadina della nostra amata Sardegna. Una cittadina qualunque, una come tante, piccola ma con manie di grandezza. Magari con una costa meravigliosa, per lunghi tratti ancora incontaminata, piena di disoccupazione vera o presunta e, con tanti, troppi, furbi che con il rosario in una mano ed il portafoglio nell’altra, fanno da bilancia all’iniquità, all’ingiustizia, alla malafede, all’orrore. In una casa distante solo un centinaio di metri dal centro storico della piccola cittadina vivono tre persone. La sera, giungono nelle loro stanze, appesantiti dalla calura estiva, i rumori della vita che scorre come l’urina dei gaudenti vacanzieri sull’antico acciottolato, per le strette viuzze della città antica, che sopporta e tace. Così come sopportano e tacciono Antonino, Lucia e Santina. Tre persone, tre fratelli, tre vite.
Quanti ricordi sparsi qua e la in quella casa. Le foto di famiglia raggruppate alla rinfusa su un’antica cassettiera, quasi nel tentativo di riformare almeno cosi il tempo felice di una famiglia che non c’è più. Santina è la seconda dei tre fratelli. I suoi desideri, la sua vocazione, si sono infranti una mattina di dicembre. Disfunzione della tiroide. Il responso implacabile, per una malattia che oggi si cura con la stessa preoccupazione di una allergia, ha lacerato di colpo l’unico sogno di una vita. Difficile, oggi, credere che una simile severità selettiva, l’attuasse un ordine religioso, quasi fosse un corpo speciale dell’esercito. Rinunciare all’abito, rinunciare alla vita, è stato un tutt’uno. A guardarla oggi in quel letto d’ospedale dove l’ha condotta l’assurdo, si è pronti a credere che la rinuncia ai propri sogni conduca alla morte. I suoi 76 anni le pesano tutti, la malattia, il dolore fisico, sono solo gocce di una disperazione senza tempo. Di Lucia, la più grande dei fratelli, non è rimasto che un triste corpo smunto, stanco, vuoto. Nei ricordi di chi l’ha conosciuta in gioventù, c’è tanta forza, gioia, solidarietà. La forza di una donna che ha lavorato tutta la vita per i suoi fratelli, che ha deciso, voluto, preteso farsi carico delle loro vite perché era ciò che una sorella deve fare. Amare la sua famiglia e basta. La gioia, con cui ha condotto la sua vita e, che disperatamente ha cercato, non riuscendovi, di trasmettere ai propri cari. La solidarietà che ha pervaso per 88 anni, ogni sua azione, ogni suo pensiero. Per la prima volta in vita sua è lontana dalla sorella. Santina in un camerone dell’ospedale civile insieme ad altri cinque corpi. Lucia in un altro ospedale dove il rumore del mare è coperto solo dal frastuono delle zanzare. In una stanza invasa da una luce accecante a far da contrasto.
In quella casa, oggi è rimasto solo Antonino il più piccolo, il più fragile. Si aggira fra quelle stanze divenute, improvvisamente per lui, vuote ed enormi . Non sa darsi pace, non conosce pace. Antonino è solo una patetica ombra di se stesso. La pietà che ispira, la respinge con la disperazione di una fierezza che non può più avere luogo.
Antonino non ha mai vinto. I demoni che ognuno di noi è chiamato a combattere nella vita, hanno avuto ragione di lui e, proprio il demone della ragione lo ha più volte sconfitto.
Noi, tutti, non siamo stati capaci ad accorrere in suo aiuto, condannando anche noi stessi alla vittoria del demone che uccide la solidarietà.
Una degenza di troppo, un farmaco di troppo e l’ultima elettrica scarica di una imbecille medicina ne ha per sempre lacerato il confine della dignità.
Quel poco di intimo, di rispetto, di umano, si è rotto una mattina d’agosto, già febbricitante per un caldo che non vuole mollare la presa come una fiera che ha addentato la sua preda e soffoca, soffoca.
Urla, schiamazzi, polizia, sirene, ambulanze. Le miserie umane esposte al pubblico ludibrio. Il pianto, la vergogna, Il silenzio.
“Ti difendo io”, dice qualcuno ad Antonino e, fruga fra le carte di una vita, alla ricerca di qualcosa , di qualsiasi cosa. Un lampo, poi due, ed ancora. Il Flash di una macchina fotografica impazzita, che cerca, fissa, spalanca, con implacabile modo al mondo intero una vita. La mia vita , la tua vita, la sua vita.
Cosa è accaduto esattamente non lo sapremo mai. La piazza s’interroga, discute, sentenzia. “Io c’ero, conosco bene la situazione, lo sapevo, lo dicevo io che….”.
La verità, quella che neghiamo a noi stessi è, che Antonino, Lucia e Santina, hanno commesso l’errore di invecchiare. Per aggiunta hanno avuto l’ardire di ammalarsi e, fra le tante malattie cui poter scegliere, hanno preferito quelle invalidanti, quelle che costringono l’uomo ad aver bisogno dell’uomo. Dopo qualche giorno erano già una storia dai contorni vaghi e sfumati. Il caldo era ancora lì a sottolineare una immobilità senza tempo, senza senso.
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