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Red 19 agosto 2010
Addio Cossiga: ricordo di Pasquale Chessa
Il ricordo del giornalista algherese e dell´amico nelle parole del direttore del Quotidiano di Alghero
Addio Cossiga: ricordo di Pasquale Chessa

ALGHERO - L'amore per la storia e per la politica, intriso di racconti e aneddoti di una lunga amicizia, quella tra il giornalista algherese Pasquale Chessa, direttore di Alguer.it, e il Presidente Emerito della Repubblica, Francesco Cossiga. La sua testimonianza a poche ore dalla scomparsa.

Cossiga è morto. All’improvviso. Che stile! Ha saputo lasciare la scena nel silenzio. Proprio lui che della parola aveva saputo fare lo strumento principe del suo potere reale, sia quando la centellinava passando per il politico più riservato della scena italiana, sia quando da «presidente silente» si era trasformato in «picconatore»: prima di smettere di vivere ha deciso di smettere di parlare. Una fuga certamente. Come quella di Tolstoi da Jasnaja Poljana interrotta nella piccola stazione di Astapovo. Non c’entra niente, altri tempi, altre personalità, lo so, ma anche l’autore di Guerra e Pace, viveva la sua vecchiaia in presa diretta con il mondo esterno. Così Cossiga, caso assolutamente unico fra i potenti emeriti della terra, usando la parola parlata come una sofisticata arma di seduzione mediatica, era riuscito a sopravvivere al suo tempo e a perpetuare all’infinito il suo status di politico di primo rango. Affascinava la sua capacità di riempire il vuoto della vita con un continuo flusso di racconti nei quali trovavano spazio tanto il pettegolezzo quanto la notazione colta, la maldicenza sfrenata e la riflessione esistenziale... Cossiga sapeva che non si poteva dire tutta la verità attraverso le parole. Perciò non sentiva il suo carattere in contraddizione con il luogo comune che vuole i sardi cupi e silenziosi. Teorizzava infatti che i sardi si dividono in due categorie: i muti e i falsoloquaci. Sarebbe a dire: che parlavano solo per dire ciò che volevano. Si è mal interpretata la sua inclinazione alla provocazione. Era la narrazione, spinta fino ai confini dell’indicibile, che lo portava naturalmente al controracconto non solo della storia passata ma anche della cronaca presente. Scrivendo «Italiani sono sempre gli altri», titolo scelto proprio per significare quel tratto del carattere nazionale che fa della maldicenza su se stessi una peculiarità esclusiva degli abitanti della penisola, si divertiva a trovare tutto ciò che in termini di civiltà nella costruzione dell’Unità avevamo perduto. Sognava un’Italia fatta come una federazione di piccoli stati civilizzatissimi, amava l’esempio del Granducato di Toscana, quasi fossero tutti delle piccole Inghilterra, rammaricandosi che il destino avesse assegnato al Piemonte, Stato reazionario e codino, il compito di fare della penisola un regno unito, e tutto ciò sebbene sapesse che un’Italia così non sarebbe mai potuta esistere. Eppure la sua invenzione controfattuale, funzionava perfettamente, come sanno fare solo i grandi storici, per capire la storia vera, ricostruire come era davero andata al di là delle ricostruzioni politiche o etiche o anche religiose. Gli piaceva citare molto il passo di uno scritto di Dostoevskij, in cui lo scrittore russo definiva Cavour come il politico colpevole non solo di aver fatto l’Italia ma soprattutto di averla fatta molto male. Poi però, quando arrivammo al capitolo sul conte Camillo Benso, volle cominciare con un incipit fulminante. Spiegava che così come Arturo Toscanini richiesto di chi fosse il più grande musicista della storia, aveva indicato il nome di Behetoven, e di fronte alla replica che gli chiedeva di Mozart aveva concluso: «Ah, ma Mozart è la Musica», per Cossiga «Cavour era la Politica». A quel punto, quando gli facevo notare che si contraddiceva, controbatteva sferzante: «Mi contraddico? Ebbene si, mi contraddico»... poi olimpico e tagliente celiava: «Lo diceva anche Stalin!». Stalin era un altro dei suoi miti à rebour, a contropelo. Prima di tutto per poter rinfacciare a tutti i comunisti che gli venivano a tiro di non poter non essere stati anche stalinisti, compresi quelli che allora non c’erano, come Massimo D’Alema. Poi perché il dittatore comunista rappresentava davvero per lui un esempio di totale corrispondenza politica fra pensiero e azione. Poco male insomma se la via comunista al bene collettivo presupponeva qualche morto di troppo in nome della rivoluzione mondiale: «se fossi comunista» sottolineava. Ma siccome comunista non era, mettere sul piedistallo della Storia proprio Stalin significava sancire la superiorità morale e storica e quindi politica del pensiero cattolico liberale di cui era ed sempre stato espressione compiuta. Cossiga quando racconta ti fa sentire dentro le cose, ti fa sedere seduto accanto sul palcoscenico della Storia, spettatore per scelta divina che non deva pagare nessun biglietto. Non ho mai pensato che ci siano stati tanti Francesco Cossiga, come talvolta la vulgata politologica ama raccontare. Cossiga è sempre stato un unicum, sempre lo stesso uomo politico che ha però saputo dare alle fasi della sua vita una loro peculiarità. Questo unicum si chiama «Politica». Senza la politica non ci sarebbe stato Cossiga, e viceversa la politica italiana non sarebbe stata così come è stata senza Cossiga. Anche quando ha smesso i panni ufficiali del potere e ha fatto finta di ritirarsi a vita privata. Come sappiamo non è mai stato vero. Frequentare lo studio di Cossiga, prima al Senato e poi nella sua casa privata nel quartiere umbertino di Prati equivaleva a partecipare a un master di alta politica internazionale. Tutto si svolgeva in presa diretta con telefonate che si incrociavano a visite, si sovrapponevano a impegni precedentemente presi che venivano sopraffati da nuovi impegni sopraggiunti. Generali e presidenti, governatori e capi di servizi segreti, cardinali e banchieri, economisti e filosofi, amministratori delegati e vescovi e talvolta anche qualche gaglioffo conclamato, venivano ricevuti uno dopo l’altro, intrattenuti in pubblico e in privato mescolati con amici collaboratori, questuanti... Non sono un ingenuo e non penso che Cossiga sia mai stato un santo, ne che lo diventerà mai, ma sono convinto che tutto possa essere spiegato con un concetto difficile da teorizzare ma facile da capire, intuitivo appunto: «intelligenza politica». Tutti andavano a trovare Cossiga. Solo dai papi andava lui. Quasi 50 le visite a Woytila. Profonda la relazione intellettuale con Ratzinger. Dimenticavo: intorno a Cossiga, non in primo piano, si poteva osservare una tipologia tutta speciale e finora poco studiata dalla politologia, detta dei «divanisti». Costoro non vanno confusi con i soliti cacciatori di favori. Al contrario. Ne dobbiamo immaginare i «divanisti» come dei cortigiani di basso rango. Affatto. Tutti debbono poter vantare, nel momento in cui accedono ai vari divani di Cossiga, dalle anticamere fino all’ufficio del presidente emerito, titoli e carriere di pregio anche se in quel frangente appannate. Hanno quindi tempo. E stanno lì. Capita così che dopo una telefonata di Berlusconi qualcuno sia finito candidato di Forza Italia, a un altro invece sia capitato di finire nelle liste di D’Alema, qualcuno è diventato Ministro degli Interni… Perché se serve un ambasciatore fra i «divanisti non manca», come non mancano potenziali amministratori delegati, presidenti, cattedratici, analisti di politica estera laureati per i servizi segreti... A raccontargliela così, Cossiga rideva chiosando con sapidi aneddoti che potevano scivolare nel più corrivo pettegolezzo come in una dotta discussione di dottrina dello stato o microfisica del potere. Arrivato alla fine di questo ritratto mi accorgo di non aver mai parlato di una persona che non c’è più. E mi viene in mente una punizione che un giorno a tavola fu richiesta al suo confessore di fronte a una voluta e consapevole interpretazione autopunitiva della sua storia personale, perdippiù ingannevole: padre gli dia una penitenza di un milione di padre nostro. Il resto del pranzo fu speso a calcolare quanto tempo ci voleva per essere assolti. Ecco, penso che Cossiga non doveva morire. France’ adesso di padre nostro te ne meriti almeno un miliardo!



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