Giancarlo Balbina
24 settembre 2022
L'opinione di Giancarlo Balbina
La realtà non sopporta menzogne
Il lavoro è stato il settore dell’economia in cui, da almeno tre decenni, l’ideologia liberista ha sferrato il suo attacco più duro. Non solo l’enorme concentrazione di ricchezza in poche mani, frutto della deregulation dei mercati finanziari e il baratro crescente delle disuguaglianze. Ma una incipiente precarizzazione del lavoro, che, per indorare la pillola, è stata chiamata flessibilità, ha estorto diritti ai lavoratori, mettendoli gli uni contro gli altri, mistificando e distorcendo persino il rapporto fra generazioni, fra padri e figli. L’idea di fondo era che dando mano libera ai datori di lavoro di assumere e licenziare i lavoratori a proprio piacimento, sarebbe aumentata l’occupazione e cresciuto il PIL. Niente di tutto questo è avvenuto. L’unica cosa che è aumentato è il livello di sfruttamento generale, perché la flessibilità ha prodotto non solo una diminuzione delle tutele e della sicurezza sul lavoro, ma ha impoverito i salari, che in Italia sono fra i più bassi d’Europa. E i dati empirici ci dicono che la precarietà ha impedito anche l’innovazione delle imprese, considerato che la competizione è avvenuta solo sulla compressione dei costi del lavoro. Per di più, l’attacco di questi decenni, ha fortemente diminuito la conflittualità nel mondo del lavoro, in particolare il ricorso allo sciopero. I dati OIL ci dicono che dal 1990 ad oggi gli scioperi, nei paesi OCSE, sono diminuiti del 42%. Anche in questo caso, l’idea di base era che la pace sociale sarebbe andata a beneficio di tutti e, soprattutto, lo sciopero non avrebbe messo più contro lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi, impossibilitati a farlo. Ma è andata davvero così? No. Dati macroeconomici inoppugnabili dimostrano che il crollo delle lotte dei lavoratori ha comportato non solo la riduzione delle tutele, ma anche della quota di reddito in capo ai salari, che è diminuita in trent’anni di dieci punti percentuali, quota che è andata a beneficio di rendite e profitti. Questo dimostra che fra lavoro dipendente e autonomo non c’è reale contrapposizione, ma crescono o arretrano insieme. Vi è poi una retorica lavorista che accusa i disoccupati di non voler lavorare, che la disoccupazione sia, alla fin fine, un fatto “volontario”. Il punto vero è che spesso si parla per convenienza o perché stravolti dall’ideologia. In realtà, se ci informassimo meglio sapremo che fra posti disponibili vacanti e disoccupati in cerca di lavoro il rapporto è di1 a 10, cioè per dieci che cercano lavoro vi è un solo posto disponibile. La realtà non sopporta menzogne. E anche il feroce attacco al reddito di cittadinanza, che abbiamo visto divampare in questa campagna elettorale, fa parte del contesto degradato del lavoro. Certamente è una misura che va migliorata e perfezionata. Ma non possiamo dimenticare che essa, come segnala l’ISTAT, ha salvato dalla povertà assoluta circa 500 mila famiglie, soprattutto durante la crisi pandemica. Ci sono state truffe in questi anni? Certamente, si; ma sicuramente molte di meno di quelle che si riscontrano continuamente nelle erogazioni statali alle imprese. In realtà, il reddito è una misura osteggiata dagli imprenditori per un motivo semplice: perché mettendolo in concorrenza con i salari, ne impedisce in parte la caduta, ovvero la cosiddetta “deflazione salariale”. Ma, alla lunga, fare cassa sulla pelle dei lavoratori senza tutele e ridotti alla fame è una strategia che non paga: impoverisce la società e mette a rischio il tessuto democratico. Prima lo si capirà e meglio sarà per tutti.
|