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Sara Alivesi 20 maggio 2021
Il Centro sempre meno storico di Alghero
La Riviera del Corallo è lo specchio di una liberalizzazione dei pubblici esercizi avvenuta nei primi anni del 2000 e il comune algherese è stato tra i primi in Sardegna ad applicarlo integralmente. Nel conto tra costi e benefici si perde pezzo per pezzo l'autenticità di uno dei centri storici più belli della Sardegna
Il Centro sempre meno <i>storico</i> di Alghero

ALGHERO - Non esistono più i centri storici di una volta, ad Alghero come nel resto del mondo. Le città cambiano, influenzate dalle piccole e grandi migrazioni, dalla crisi demografica, dal turismo. E il dinamismo insediativo che caratterizza quest’epoca incide sui livelli di urbanizzazione e, più in generale, sull’economia e la vitalità dei centri urbani. La Riviera del Corallo è lo specchio di una liberalizzazione dei pubblici esercizi avvenuta nei primi anni del 2000 e il comune algherese è stato tra i primi in Sardegna ad applicarlo integralmente. Da allora sono spuntati in ogni vicolo micro, piccole e medie pizzerie, gelaterie, bar, ristoranti, in molti casi concentrati in un solo locale. Per intenderci: chi prima faceva solo il caffè, il cappuccino e il toast ora può vendere anche lasagne, pizze e bistecche. I loro vicini - salvo le rinomate gioiellerie delle vie principali, pochi laboratori orafi e qualche boutique - sono più spesso rivendite H24, appartamenti improvvisati come case vacanze, negozi di finto corallo e di souvenir made in Cina. E a questo si sono aggiunte panche, sedie, sdraio e tavolini in ogni piazza, strada e marciapiede. In buona parte senza nessun (o quasi) rispetto ad un piano di arredo urbano. Niente contro il Sol Levante, le macchinette, i tavolini, il mercato aperto e tutto quello che ne deriva, ma una liberalizzazione più "sostenibile" delle attività economiche è un obiettivo che un'amministrazione comunale può sempre porsi trovando un equilibrio tra il diritto alla libera iniziativa economica e il diritto alla tutela e la vivibilità dei centri storici riconosciuta da norme di varia natura, compresa la Costituzione. Come è possibile? Con una molteplicità di regole: da quelle urbanistiche a quelle più commerciali.

Non molto tempo fa' anche il presidente del Fipe - Federazione Italiana Pubblici Esercizi - Lino Enrico Stoppani aveva già richiamato l'attenzione su questo aspetto: «lo spopolamento dei centri urbani rappresenta una minaccia anche per il nostro settore. Il proliferare di attività di ristorazione senza servizio, senza personale, con locali di pochi metri quadrati sta creando seri squilibri nella qualità dell’offerta commerciale delle città. Per contrastare tale tendenza, è necessario attuare politiche di rigenerazione urbana innovative in grado di promuovere valori comuni, in ambito sociale, culturale ed economico, e di favorire l’integrazione tra i vari livelli di governo e tra imprese, società, associazioni e anche singoli individui nell’ordine di rafforzare le economie urbane e contrastare la desertificazione commerciale». L'osservanza di criteri di qualità del servizio, di arredo, di insonorizzazione, di vigilanza; l'individuazione di attività o merceologie incompatibili con le esigenze di tutela o con la natura delle aree: sono regole di pianificazione che un ente (o più enti insieme) può utilizzare per contingentare le licenze che, in assenza di programmazione sono soggette solo alla presentazione di una semplice domanda all'ufficio commercio, fermo restando il possesso dei requisiti professionali richiesti e delle certificazioni edilizie e sanitarie.

La misura delle cose è sempre la risposta, anche per chi (come me) si consuma nel conflitto se a prevalere devono essere i legittimi interessi imprenditoriali o la vita di un centro storico che deve adeguarsi ai tempi che corrono senza però perdere la sua autenticità. Il resto diventa poesia solo nei ricordi di chi l'ha vissuto. La vita delle famiglie che si confondeva tra la strada e i dabaix che ora sono diventati negozi, l'algherese che risuonava in ogni angolo, le botteghe degli artigiani, i piccoli Alimentari, i calzolai. Solo nel Carrer de Pepi Gall (via Gioberti) dove sono cresciuta ne esistevano tre, ognuno con il proprio xisto (soprannome) e la mia infanzia da figlia unica è passata attraverso il minuscolo laboratorio di signor Giovanni in cui si mischiava l'odore di colla e pelle delle scarpe perfettamente riposte nello scaffale. E poi a far finta di sistemare i pacchi di pasta nella botiga di zia Assunta, ad ascoltare l'inno del Milan dalla finestra di Marco nei fortunati anni '80 per l'ex squadra di Berlusconi, a trascorrere le ore nel magazzino di nonna Adele tra i fotoromanzi dei giornali che lasciavano le clienti per incartare le uova fresche e le verdure che portava mio nonno ogni mattina con il carretto guidato dal suo fedele asino "Ciccita". L'estate diventata una festa perché arrivavano gli ospiti delle seconde case e si parlava fiorentino, romano, milanese per tre mesi, fino all'odiata riapertura delle scuole. In ciascuno di questi luoghi della mia memoria ora ci sono ristoranti e piccoli dehors, delle famiglie "storiche" sono rimasti in pochissimi e con quelli che resistono continuiamo a non usare i campanelli e a chiamarci urlando i nomi dalla strada, spesso tra le facce incuriosite di qualche turista straniero felice di godersi lo spettacolo.
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