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Carlo Mannoni 29 aprile 2021
L'opinione di Carlo Mannoni
Il ricordo delle dune di Maria Pia
<i>Il ricordo delle dune di Maria Pia</i>

Amo le dune del litorale di Maria Pia. Le amo dal 1962, quando ne presi conoscenza appena quindicenne, arrivato qualche anno prima ad Alghero. Allora erano come Dio le aveva fatte, ora un po' meno. Sono invecchiate nel tempo e l’uomo, come spesso accade nel suo rapporto con la natura, ha fatto la sua parte. Ci arrivammo in quell’anno con alcuni amici che era appena iniziato l'inverno. Praticavamo da poco la corsa campestre e andavamo a correre sugli sterrati di Calabona, nell’oliveto prospiciente il Seminario di via Giovanni XXIII, realizzato allora solo in parte, o sul ciglio della strada per Villanova Monteleone. Giulio Spanu, super atleta che si prendeva anche cura di noi più giovani, ci informò un giorno che ci saremmo allenati da lì in avanti nella pineta di Maria Pia, impiantata nel 1912 nella zona della ex colonia penale di Cuguttu. “Un luogo riservato e ideale per correre”, ci disse. E così fu.

Si prendeva l’autobus davanti alla mitica Casa del Caffè ai giardini pubblici e si scendeva nei pressi dell’Ospedale Marino, un altro dei miti di Alghero. Non c’erano tute da indossare, allora, e ci si arrangiava alla meglio con ciò che si trovava in famiglia o ci passava la scuola prima delle gare, stipando il tutto nell’inelegante “sacca” sportiva. Ci si cambiava in pineta con qualsiasi tempo, incuranti del freddo, e subito dopo davanti a noi si apriva una sorta di Paradiso, con le bianchissime e morbide dune abbracciate ai ginepri che, una volta scalate sino alla loro sommità, ci spalancavano alla vista lo splendido scenario del mare e della lunga spiaggia sottostante, protetta a tratti dai banchi di alghe sulla battigia. La pineta era tutta e solo per noi, nonostante la nuova strada per Fertilia appena aperta ne avesse interrotto lo splendido isolamento durato cinquant’anni. I rumori di sottofondo erano solo quelli naturali, col ritmico infrangersi delle onde sull’arenile. Da lì Alghero ci appariva lontana e sfumata, impensabile immaginarla così oggi.

Una bella domenica mattina del successivo autunno di quell’anno (una di quelle giornate in cui, ad Alghero, ti sembra d’essere ancora d’estate) mi recai da solo alla “Forestale”, come in molti definivano la pineta di Maria Pia. Mi piaceva la corsa e pregustavo l’atmosfera del poter essere, in quella giornata di festa, l’unico a corricchiare in pineta o sulla spiaggia, senza dover soffrire al seguito dei compagni più bravi di me. Mi figuravo una mattina domenicale rilassata e diversa dalle solite, sottratta alla consueta passeggiata in giacca e cravatta ai giardini pubblici. L’illusione durò poco, perché in autobus incontrai un amico di qualche anno più grande, che ancora oggi corre con profitto le maratone. Si recava anche lui in pineta ad allenarsi e non potei esimermi dall’accettare il suo amichevole invito a farlo assieme. Non ci misi molto a capire, da lì a poco, che non sarebbe stata una corsetta! Stabilì infatti, in base all’autorità che gli anni in più gli conferivano, che avremmo corso scalando ripetutamente alcune dune, quelle più ripide e alte in cui si sprofondava a ogni passo, e così avvenne. Fu tanta la fatica e lo stravolgimento del mio corpo, che la mia mente invano spronava a resistere, che ogni volta che si ridiscendeva sulla spiaggia a riprender fiato ero tentato di lasciarmi andare sugli spessi strati di paglia marina e finirla lì. Speravo che ogni scalata fosse quella definitiva, ma una volta ultimata la discesa l’indomito e imperterrito amico mi spronava a ricominciare.

Ancora oggi ho un vivo ricordo dell’abbacinante biancore della sabbia delle dune, degli occhi bruciati dal sudore, della pelle arsa quasi fossimo sotto il sole d’agosto e della fatica immane che mi sarebbe servita a ben poco e che in quel momento mi fece odiare quel capolavoro della natura. Amore e odio che nel tempo, con lo stemperarsi del ricordo, si è trasformato in solo amore. Mi è capitato anni fa di recarmi in pineta e di rifare a passo il vecchio tracciato degli allenamenti di gioventù. Un anello di 2chilometri, allora calcolati “a occhio” sbagliando solo di pochi metri, che ho ripercorso come in un amarcord che rivive solo chi ha amato un luogo e lo ritrova dopo un lungo tempo. Mi sono chiesto come potessimo correre allora, anche per 8chilometri, su quel fondo sabbioso che rendeva più che difficoltosa la corsa. Semplice: la gioventù faceva sentire più leggera la forza di gravità e dava quella lievità al corpo e allo spirito che, dopo sessant’anni, appartengono al ricordo. Passando la scorsa estate nei pressi delle ancora splendide dune, seppure anch’esse aggredite dai non pochi acciacchi dell’età e un po’ ingobbite, le ho osservate con rispetto e affetto, sfiorandole appena. Troppa e mai dimenticata la stravolgente fatica di quella lontana domenica mattina autunnale del 1962. Amate certamente, care dune di Maria Pia, ma a distanza.
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