Carlo Mannoni*
15 giugno 2020
L'opinione di Carlo Mannoni*
Quello strano risveglio
Aprii gli occhi che l'alba non era ancora sorta. Un risveglio precoce, come non di rado mi accadeva, ma a differenza delle altre volte mi sentivo riposato come se mi fossi destato da un sonno più lungo e più profondo del solito. Il torpore della notte appena trascorsa non aveva ancora lasciato del tutto il mio corpo e percepivo le membra leggere come se avessero perduto la loro gravità, quasi che neanche esistessero. Il corpo non abbandona mai la mente. Quando ciò accade, lo fa solo in apparenza allorché quest'ultima si prende i suoi meritati intervalli, distanziandosi da sé stessa e dalla sua fonte generatrice, il corpo, e vaga assente negli sconfinati spazi onirici. Ma è un abbandono solo apparente perché la nostra corporeità non le dà tregua. Il nostro cuore continua infatti a battere come sempre, seppure a ritmi più lenti, e i piccoli e intermittenti segnali di dolore e di piacere fisico pulsano anch'essi ininterrotti, arrivando alla mente che li codifica e li elabora adattandoli al sonno e ai sogni in corso. Ne abbiamo pieno sentore al risveglio, quando ci riconnettiamo alle nostre membra con un check-up pressoché istantaneo e prendiamo atto dei piccoli e grandi mali fisici che ci affliggono. Eppure, non sapevo perché, in quel risveglio mattutino il dolore, anche quello più blando, era del tutto assente. Il referto del solito check-up che la mente aveva elaborato in un tempo infinitesimale non segnalava anomalie di sorta.
Erano scomparse anche le minute e diffuse sensazioni di fastidio fisico alle quali avevo ormai fatto abitudine con i meccanismi di compensazione e adattamento che ero stato bravo ad elaborare nel tempo. Anche la mente era fresca e riposata. Normalmente il risveglio si trascinava appresso scampoli dei sogni della notte precedente prima del loro dissolversi per sempre nell'oscuro dell'inconscio. Questa volta no, era come se il sonno da cui ero appena riemerso fosse trascorso indenne dalle elaborazioni oniriche. Erano sensazioni originali che forse chi fa uso di droghe è abituato a interpretare. Un totale e momentaneo distacco dal corpo e dalla mente. Tabula rasa del nostro esistere come indissolubile connubio di spirito e corpo. Una tenue luce indiretta penetrava nella stanza proveniente dal corridoio. Non sentivo accanto a me la presenza di Rossana, mia moglie. Doveva essersi svegliata anche lei di buon’ora lasciando socchiusa la porta della camera da letto quel tanto da far trapelare un barlume di luce che rendeva percepibili i contorni visivi cui ero abituato.
Il mio primo sguardo si soffermò, come sempre, sul grande quadro dalla cornice bianca, 100 centimetri x 70, che campeggiava dinanzi a me sulla parete opposta. Una composizione un po' naif realizzata dalla vena artistica di mia moglie attraverso l'ingrandimento di una foto di una sua gonna fantasy. Ero affezionato a quel quadro che, rassicurante, mi riportava alla realtà ad ogni risveglio mattutino, così come quel mattino. La luce soffusa della camera ne stemperava però i colori, e nella penombra prevalevano le tinte cupe. Lo fissai con più attenzione tentando più volte di metterne a fuoco l'immagine ma le tinte restavano irrevocabilmente e inspiegabilmente ombrose. Eppure era lì, rassicurante come sempre. La circostanza mi condusse ad elaborare diversi pensieri dai quali mi sottrassi immediatamente, distratto dall’inusitato rumore di un carrello metallico in movimento che procedeva da e non so per dove. Prima di abbandonare il giaciglio della notte, intrapresi il solito stiracchiamento mattutino che ci fa sentire tanto simili ai felini. Tentai di stropicciarmi il naso, ma non mi fu agevole per via del sondino gastrico che attraverso una narice mi percorreva l'esofago sino allo stomaco. Era il primo dei diversi e scomodi intrusi all'interno del mio corpo che passai in rassegna mio malgrado. Fu poi il turno dei due tubi da drenaggio che fuoriuscivano uno dal ventre l'altro dal fianco destro, seguiti da quello della flebo in corso collegato al braccio sinistro, per finire col meno nobile tubicino del catetere. Sul petto diversi elettrodi collegati all'apparecchio per il controllo cardiaco e, infilato all’indice della mano destra, il saturimetro.
La realtà mi fu di colpo chiara. Ero in una stanza d'ospedale e ciò che credevo fosse il quadro della mia camera da letto non era altro che uno spropositato schermo televisivo che spiccava col suo lugubre color nero dalla parete bianca dinanzi al mio letto. Il mio benessere, poi, era originato dalla morfina post operatoria che mi era stata somministrata dopo l’urgente intervento chirurgico cui ero stato sottoposto in piena notte, il secondo in due giorni. Col primo mi era stato asportato un tumore: doveva essere un’operazione eseguita con una tecnica operatoria non invasiva da un eccellente chirurgo e dalla sua equipe. Operazione riuscita sul versante del malefico intruso ma con complicanze per un altro organo (ai migliori chirurghi succede una volta su mille) e necessità di un secondo e urgente intervento. Il risveglio divenne di colpo triste. Mi mancò il sorriso di Rossana che mi aveva accolto al mio riaprir gli occhi dopo la prima operazione, così come la rassicurante presenza di mio figlio Enrico (Fabio, il maggiore, sarebbe arrivato il giorno stesso dalla Toscana dove risiedeva). Alle sei in punto di quella mattina si accesero le luci della camera e fece ingresso il medico di guardia accompagnato da alcuni infermieri per i controlli di rito. Alla mia destra un’enorme vetrata mi ricollegò al mondo e alla natura, attraverso l’imponente colle che con la sua massa scura si stagliava sul cielo terso illuminato dalla luna al tramonto e che sovrastava, con le sue ripide pendici, la torre di dolore senza merletti e cavalieri che apre le sue porte alla sofferta gente. Da lì a poche ore lo avrei riscoperto rivestito dei colori della primavera che già si annunciava in anticipo sul calendario. Una tavolozza di colori a ravvivare il lindo e triste biancore della camera. Una primavera rigeneratrice come la presenza materna che, pur da una incommensurabile lontananza, risentii a me prossima nel momento della sofferenza che non sarebbe stata breve.
*ex dirigente e amministratore regionale. Un ricordo personale in un momento di sofferenza sanitaria
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