Antonio Mura
13 aprile 2020
L'opinione di Antonio Mura
L´assenza di Dio, l’azzardo di crederci
Premessa: altre volte ho scritto di religione, sfidando chi coglie queste occasioni per ridicolizzare il ragionamento. Non mi tiro indietro neanche in questa Settimana Santa di clausura, perché ritengo che riflettere e far riflettere, l’otium, sia un esercizio utile per maturare in saggezza e umanità. Detto questo, chi non è interessato al ragionamento può fermarsi qui. Seppur timidamente, ogni tanto compare una domanda: dov’è Dio al tempo del CoronaVirus? Qualche sera fa, il giornalista televisivo Floris l’ha rivolta a monsignor Paglia, il quale ha risposto che Dio è negli infermieri e nei medici che operano negli ospedali, mettendo a repentaglio la loro vita. La reputo una risposta giusta, anche se non la trovo del tutto esaustiva. Con tutto il rispetto che porto per monsignor Paglia, io penso che il nostro sia il tempo dell’assenza di Dio, un’assenza che abbiamo vissuto anche in altri momenti storici e che deve farci riflettere, o almeno far riflettere chi si dichiara credente. Dov’è Dio quando migliaia di uomini, donne, bambini, muoiono in fondo al mare, disprezzati da gente che vuole il benessere tutto per sé? Dov’è Dio quando in nome della religione si prendono in mano le armi e si uccide, convinti di compiere un gesto sacro? Dov’era Dio quando l’uomo è stato disumanizzato, torturato e massacrato nei campi di concentramento nazisti? Questo solo per parlare dei fatti più recenti, senza saltare il secolo appena passato. Dov’è Dio? Hanno urlato in tanti. Voglio però essere diretto sul ragionamento dell’assenza di Dio, per capire dove porta questo suo annullarsi, scartando sin da subito tutte quelle stupidaggini che riguardo al CoronaVirus parlano di punizione divina (capitò anche con l’Aids), riducendo il sentimento religioso a superstizione.
In passato, questa assenza di Dio è stata confusa con la “morte di Dio”. Un'eco di quella corrente teologica è finito anche in una famosa canzone di Francesco Guccini. Quella teologia, per quanto suggestiva, non ha portato alcun contributo significativo al pensiero religioso, tanto che si studia solo per dire che c’è stata. Affermava la morte di Dio e invece ha sentenziato la morte di sé stessa! Altra cosa è ragionare sull’assenza di Dio, perché ci aiuta a penetrare a fondo l’essenza del Cristianesimo. Perché dico questo? Perché il Cristianesimo nasce dalla morte di un figlio, nel caso specifico la morte di un innocente, una morte violenta e ingiusta. Penso non ci sia dolore più grande, e penso che un padre o una madre darebbero la loro di vita pur di vedere il figlio vivere. Il Padre invocato, invece, non fa niente perché quella morte non accada, lascia che si consumi interamente, nell’ingiustizia totale, è assente. Una situazione che si ripeterà mille altre volte nella storia, tutte le altre volte che un innocente muore o viene fatto morire ingiustamente. Esattamente il contrario di quello che vorremmo noi: un deus ex machina che entra in scena per risolvere ogni emergenza. Il Dio cristiano non è un deus ex machina, non scenderà mai sulla terra per liberarci dal CoronaVirus, non cambierà il corso di questa triste storia. E’ il Dio assente, che non vuol dire che non c’è, ma che qualcosa o qualcuno ci manca. Come ci manca un figlio quando va a studiare o a lavorare lontano dalla sua terra, come ci manca un padre quando ci lascia, e noi siamo bambini o adulti. Come ci manca la donna che abbiamo amato, così ci manca il Dio in cui abbiamo creduto, di cui ci siamo fidati.
E’ un’assenza che mette in luce la nostra incompletezza, ma anche le nostre incertezze, le nostre indecisioni, il nostro essere limitati, la nostra non autosufficienza. Quell’assenza ci mette a nudo, mette a nudo tutte le nostre debolezze. Nell’assenza di Dio scopriamo la nostra vera natura umana, impotente, così impotente da soccombere sotto la minaccia di un nemico invisibile, il virus. C’è dell’altro: un’assenza si nota assai di più di una presenza, perché diamo le presenze scontate, ordinarie. L’assenza invece è straordinaria, inaspettata, preoccupante, per certi versi anche angosciosa. L’assenza fa saltare tutti i nostri piani, rimette tutto in discussione, ci toglie ogni riferimento, ci fa sentire soli. Da qui la natura del cristiano, segnata da una profonda inquietudine, mai completamente soddisfatto di come scorre la sua vita e quella altrui. Da Gesù in poi è un continuo mettere in discussione lo status quo, che per i primi cristiani ha significato un andirivieni di persecuzioni nell’arco di quasi tre secoli. San Francesco ha rischiato di essere considerato eretico, e siccome eretico non era hanno scritto che era pazzo. Dall’assenza di Dio e passando dall’inquietudine si arriva a riconoscere il valore della relazione, della vita in comune, della condivisione e della solidarietà: ama il prossimo tuo come te stesso. Come dire: se Dio non ci aiuta, aiutiamoci tra di noi. E in questo preciso momento scoppia il miracolo, ci riscopriamo umanità. Quell’umanità che Dio stesso ha voluto e ha scelto in Gesù, e che viene fissata nella fede attraverso un dogma, quello dell’Incarnazione: Dio che si fa uomo, che condivide la condizione umana. In questo passaggio si conferisce ad ogni uomo la dignità che merita, una dignità che ha un valore sacro e perciò inviolabile. La natura divina si scopre umana e quella umana si scopre divina. Da un’assenza quindi si giunge a una consapevolezza, quella del nostro destino, quella dello sguardo che si alza, che trascende la realtà, anche la più dura da sopportare. E se lo sguardo continua a non vedere? E’ il tormento degli anacoreti, la loro lotta quotidiana contro se stessi, nella solitudine scelta di una grotta o di un monte. Dio, dove sei? Perché non parli? Perché non ti fai vedere? Chissà quante volte, chiusi nelle nostre case, ci siamo posti la stessa domanda degli anacoreti, degli eremiti, di chi ha preso sul serio l’assenza di Dio.
Un’assenza che ci interpella, che ci obbliga a reagire, a tentare di colmare il vuoto. Non per nulla la scienza moderna nasce nel mondo occidentale, segnato profondamente dall’inquietudine cristiana. Ma anche il gusto del bello, quindi l’arte nelle sue espressioni più alte. Rendere l’umano divino, questo il compito che ci porta a colmare l’assenza di Dio. Divino non nel senso del potere, ma in quello del servizio. Divino non per abitare il cielo, ma per essere terra che respira, genera e rigenera, un nuovo Adamo che segue l’insegnamento “controcorrente” di Gesù. Chi pensava al Vangelo come a un messaggio consolatorio si è sbagliato, oppure lo ha voluto trasformare in consolatorio solo perché così è più comodo gestire le situazioni. Il Vangelo stesso ci parla dell’assenza di Dio: si inizia con la strage dei bambini innocenti ordinata dal re Erode il grande; la società del tempo è una società elitaria, dove il povero è disprezzato e dove il destino delle persone è deciso da Dio e nessuno lo può cambiare. Si nasce ciechi per punizione divina, a causa del peccato. Gli epilettici sono considerati indemoniati, i lebbrosi degli impuri, i sordomuti puniti alla peggiore delle condanne: non sentire e non poter trasmettere la Parola di Dio. Per non parlare dei miracoli e dei pochi fortunati che sono riusciti ad ottenerlo. Capisco che sto forzando un po’ le interpretazioni, ma rimane fermo il fatto che il contesto è di ingiustizia. “Dio mio Dio mio, perché mì hai abbandonato?”. Lo ha gridato il salmista, lo ha gridato Gesù stesso appeso in croce. Oggi quel grido riecheggia all’interno delle chiese vuote, amplificando la sensazione dell’assenza di Dio, del suo mettersi fuori, come uno spettatore distratto.
Gli ebrei, nonostante la loro fede incrollabile, è da una vita che adorano un Dio distratto, un Dio che li ha fatti popolo per poi abbandonarli a un destino di sofferenza e anche di crudeltà. Si sono talmente rassegnati a questa assenza di Dio che la vivono quasi con ironia, come un particolare “difetto” di Dio. Si, un difetto di Dio, perché Lui che tutto può ha rinunciato a guidare la storia degli uomini, lasciandoci sin dal primo giorno la libertà di decidere, di disobbedire e anche di sbagliare. Non si impone, non ci dice “Io ci sono”, non è un presenzialista! No, il Dio cristiano come quello ebreo ci dice “Cercami”, e la ricerca non dura un giorno o un anno, la ricerca dura la bellezza di una vita intera e se finisce, finisce con la nostra Pasqua (che coincide con la nostra morte). Se non finisce (cioè non c’è alcuna Pasqua, si muore e basta) non ce ne dobbiamo lamentare, perché abbiamo vissuto come abbiamo voluto e, come diceva un credente-scienziato o uno scienziato-credente, Blaise Pascal, la fede è una scommessa. Il massimo dell’assenza di Dio, cioè l’azzardo di crederci.
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