Pasquale Chessa
30 novembre 2016
L´ultima partita di una lunga storia
All’annuncio del risultato, 453 i voti favorevoli, un gruppo di vecchi garibaldini dalle balconate del pubblico intonò l’inno nazionale costringendo l’intera assemblea costituente a levarsi dagli scranni facendo seguire applausi scroscianti ai versi di Fratelli d’Italia. Eppure quella stessa Costituzione, fin dal giorno in cui era stata votata, fu subito contestata. E duramente criticata non solo dalla destra monarchica e fascista che era rimasta fuori dal patto costituzionale, ma anche dagli stessi protagonisti che ne avevano determinato sia lo spirito che la forma. Il 4 dicembre, con il referendum confermativo si giocherà l’ultima partita di questa lunga storia.
All’annuncio del risultato, 453 i voti favorevoli, un gruppo di vecchi garibaldini dalle balconate del pubblico intonò l’inno nazionale costringendo l’intera assemblea costituente a levarsi dagli scranni facendo seguire applausi scroscianti ai versi di Fratelli d’Italia. Era solenne e festoso, tramandano le cronache, il clima dell’aula il pomeriggio del 22 dicembre 1947, giorno in cui fu votata la nuova Costituzione della Repubblica. Per la storia condivisa fu il frutto miracoloso di un nobile incontro fra le culture contrapposte che attraversano la società italiana uscita con grandi travagli dal fascismo e dalla monarchia, dalla domestica guerra civile e dalla più grande guerra mondiale e faticosamente approdata alla Repubblica.
Eppure quella stessa Costituzione, fin dal giorno in cui era stata votata, fu subito contestata. E duramente criticata non solo dalla destra monarchica e fascista che era rimasta fuori dal patto costituzionale, ma anche dagli stessi protagonisti che ne avevano determinato sia lo spirito che la forma. Fanno scuola le parole dello stesso presidente della Commissione incaricata della redazione finale: il massone liberal radicale Meuccio Ruini, presentando all’assemblea il testo per il voto, con tutta l’enfasi necessaria a sottolineare il momento storico, prevedeva che quella Costituzione sarebbe stata «gradualmente perfezionata». E aggiungeva: «Noi stessi – e i nostri figli – rimedieremo alle lacune e ai difetti che esistono, e sono inevitabili. … Nessuna costituzione è perfetta. Tutte le volte che se ne è fatta una sono risuonati lamenti e deprecazioni …».
«Confusa, ideologica, prolissa», avrebbero detto tutti quelli che pur avendola scritta, ne temevano la piena attuazione, a cominciare dalla Dc di De Gasperi e dal Pci di Togliatti. Per Piero Calamandrei, citando Schubert, sarebbe rimasta un’Incompiuta. Già nel 1948, per il presidente del nuovo Senato la camera alta andava riformata da subito e perciò aveva costituito una commissione per modificarne la composizione. Soprattutto per le sinistre all’opposizione, egemonizzata dal Pci, le forze oscure della reazione facevano di tutto per limitare alla «democrazia formale» l’applicazione della Carta, a discapito di quella «democrazia sostanziale» che ne avrebbe fatto uno strumento di una nuova rivoluzione, una Rivoluzione socialista questa volta, continuazione della Resistenza antifascista.
Sono parole e critiche che ancora riecheggiano nel dibattito di oggi, che accompagnerà gli italiani fino alle urne, il 4 dicembre, per decidere se approvare o rigettare le proposte di modifica costituzionale votate dal parlamento, promosse dal governo Renzi, ma volute da una opinione pubblica sensibile al malfunzionamento della politica in sintonia con il presidente Giorgio Napolitano, che proprio in nome di quelle riforme venne costretto ad accettare un secondo mandato presidenziale. Così, riportando il calendario della cronaca politica ai mesi che precedono il voto finale, ci si ritrova immersi in un cima affatto idilliaco. Quel compromesso originario fra l’antifascismo moderato e l’antifascismo rivoluzionario su cui si fondava la nuova Italia repubblicana, era stato gravemente incrinato dalla scelta di De Gasperi di escludere Psi e Pci dal governo il 12 maggio del 1947.
Le sinistre avrebbero evocato l’immagine del «colpo di Stato». Le destre la figura minacciosa della rivoluzione sovietica. Il cruciale Quarantotto, con le elezioni del 18 aprile, avrebbe dato ragione a De Gasperi, assegnando alla Dc il monopolio della maggioranza ma lasciando al Pci il monopolio dell’opposizione. Non è quindi difficile immaginare che anche la costituenda costituzione sia entrata nel gioco politico del compromesso politico che lo stesso Togliatti avrebbe bollato come «deteriore». Diffuso era a sinistra il sentimento che la Carta fosse il risultato di un compromesso al ribasso con le forze oscure della reazione che così avevano avuto la meglio.
Un costituente di grande prestigio, come il giurista Piero Calamandrei, nel timore di un pasticcio costituzionale fra democristiani e socialcomunisti, faceva nascere quel compromesso che ora ci appare storico dalla necessità di «compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata» con «una rivoluzione promessa» implicita nella Costituzione. È in questo contesto ideale che nasce la battuta di lunga durata secondo la quale la Costituzione sarebbe stata scritta «metà in latino e metà in russo». Il vecchio Saverio Nitti, che era stato presidente del consiglio nel 1920 quando si stagliava sull’orizzonte della politica italiana la minacciosa la sagoma di Mussolini, che lo avrebbe presto costretto all’esilio, lamentava che la scrittura del testo fondativo della nuova repubblica volesse contemperare tendenze opposte e contraddittorie, come «il catechismo e la dialettica marxista».
È stato Renzo De Felice ad argomentare come Dc e Pci fondassero la rispettiva legittimazione nazionale nell’Italia del dopoguerra, dopo la sconfitta del fascismo, nel potere sovranazionale della Russia di Stalin e del Vaticano di Pacelli. Una legittimazione politica che De Gasperi e Togliatti seppero forgiare dentro il processo costituente in un senso che andava ben al di là delle necessità politiche dell’Unione Sovietica e soprattutto della Santa Sede. Fra le tante reazioni della destra cattolica emblematica quella di padre Antonio Messineo, giurista della rivista dei gesuiti La Civiltà Cattolica, che giudicava la Costituzione appena approvata non come il frutto rigoroso di «giuristi scaltriti nel maneggio degli strumenti dell’arte giuridica» quanto invece il frutto di un pasticcio dei politici che avevano riempito la Costituzione di «certe loro ideologie sociali, … certe direttive di partito».
La «più bella costituzione del mondo» (come la definiscono ora i difensori dello status quo) nei primi due anni di vita non piaceva proprio a nessuno. Sarà Togliatti, con un discorso al comitato centrale, nell’ottobre 1950, a indicare una nuova strada lanciando il tema ideale della «difesa della Costituzione». Un percorso lungo che avrebbe preso le forme della battaglia per la sua attuazione. Ma quell’alone di intoccabilità sarebbe rimasto impresso per sempre, un muro su cui si sarebbero schiantate battaglie più nobili e meno nobili, dalla Grande Riforma di Bettino Craxi e Giuliano Amato, alla Riforma mancata di Francesco Cossiga, dalla Bicamerale di Massimo D’Alema alla bocciatura referendaria della Riforma presidenzialista del governo Berlusconi. Il 4 dicembre, con il referendum confermativo si giocherà l’ultima partita di questa storia.
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